11 marzo 2007

Non si nasce donna, si diventa?

Paola Muti, direttore Istituto Nazionale Tumori Regina Elena IRCCS, docente alla School of Public Health della Harvard University.

Pubblicato su Va' Pensiero n° 294

La sua nomina a direttore scientifico dell’Istituto dei tumori del Regina Elena ha subito diversi attacchi. Pensa che essere donna le abbia reso la vita professionale più difficile?

Sicuramente la nomina a direttore del Regina Elena è stata una prova importante nella mia vita, ma non posso dire con certezza se e quanto gli ostacoli incontrati siano dipesi da una discriminazione di genere. Come sempre, quando nella vita si è sottoposti a ingiustizie si ha la sensazione che queste ingiustizie debbano avere una loro origine...

E la sua sensazione quale è stata?

Che alla base delle difficoltà incontrate ci fosse una sorta di “discriminazione” per il mio essere donna. Ma sicuramente quello che ho provato è il non sentirmi compresa, il non avvertire un clima di solidarietà quando i capi della mia attività di ricerca erano degli uomini. Questa esperienza, a livello soggettivo, ha sicuramente rafforzato la mia convinzione che essere una donna mi facesse provare durezze più intense rispetto all'essere un uomo.

Essere donna le è stato d'aiuto?

Certamente. Mi è stata di aiuto quella flessibilità mentale che riconosco tipicamente nelle donne quando devono affrontare degli ostacoli: le donne sono più portate ad escogitare soluzioni alternative, a differenza degli uomini che, invece, mi sembrano più rigidi nei loro schematismi. Proprio l'altro giorno una mia collega diceva “È incredibile come lavora la mente degli uomini: sono sempre concentrati a fare una sola cosa, mentre per noi donne non è così; quando sono al lavoro riesco a guardare il computer, rispondere al telefono e allo stesso tempo chiudere un cassetto con il piede”. Un'altra prerogativa femminile che mi è stata di supporto è relegata alla sfera affettiva e dei sentimenti: l'intensità di essere una mamma, di condividere emozioni con le altre persone mi ha sempre aiutato a gioire, anche quando le cose belle non succedevano a me ma agli altri, e a ridimensionare i problemi quando qualcosa di negativo intralciava la mia strada.

Lei ha fatto una brillante carriera nella ricerca all'estero e in Italia. È difficile conciliare la maternità e la famiglia con il lavoro?

Non è di certo semplice. Quello che manca purtroppo è una cultura di supporto per la donna, soprattutto per la donna giovane, indipendentemente, che voglia o meno avere dei figli, ma che dovrebbe essere messa, comunque, nella condizione di scegliere liberamente di diventare madre, senza essere penalizzata nella carriera professionale. Personalmente ho vissuto due maternità: una in Italia e una negli Stati Uniti. Devo riconoscere che negli Stati Uniti, come pure in alcuni paesi europei quali la Germania, si hanno a disposizione diversi servizi di buona qualità e di supporto per le neomamme. In questo modo si riesce a mantenere l'attività, comunque produttiva o perlomeno non limitata fortemente dalla presenza dei figli.

E nel nostro Paese?

In Italia la vita si complica perché la struttura non è ancora pronta a istituire sistemi di supporto e di aiuto per le neomamme durante il periodo dell'allattamento. Purtroppo, è parte del sistema attuale dare una grande responsabilità alla donna nella gestione pratica dei figli, mentre al padre viene affidato per la maggior parte il compito del supporto economico. Questa cultura ha sicuramente un peso nella tua produttività al lavoro, sia essa in termini di idee, che di progetti. Però, quello che ho visto e provato in prima persona è che, dopo il periodo dell'allattamento, la donna attraversa un periodo di rinascita e riesce a raggiungere la stessa produttività nella metà del tempo, recuperando in parte il terreno “perduto” con la gravidanza... È una fase di esplosione dopo un periodo di intensità biologica che considero un privilegio straordinario della donna.

Il Massachusetts General Hospital ha istituito il Claflin Distinguished Scholars Awards a favore delle giovani dottoresse con figli: una borsa di studio di 30 mila dollari da sommare al normale stipendio. Basterebbero gli incentivi economici per migliorare le cose da noi?

Per come stanno adesso le cose, istituire delle borse di studio non è sufficiente. Abbiamo bisogno di strutture, ma soprattutto di una diversa mentalità, che non penalizzi la donna, ma ne permetta la sua completa valorizzazione che non può prescindere dai suoi figli. Nella mia esperienza ho trovato una forte solidarietà tra le donne che facevano il mio stesso lavoro. Ad esempio, ricordo che negli Stati Uniti tra le ricercatrici convocate per riunioni scientifiche a livello federale, unendo le nostri voci, siamo riuscite ad ottenere di non fissare riunioni il sabato e la domenica, né il venerdì pomeriggio: davamo la nostra disponibilità a qualsiasi ora del giorno e della notte durante la settimana, ma il fine settimana doveva essere sacro ed esclusivo per la nostra vita extra-lavorativa. Queste sono piccole cose non scritte, ma che considero delle piccole conquiste delle donne per garantirsi una vita compatibile con gli affetti. Più donne andranno a contribuire in posizione di “potere”, di condivisione e pianificazione programmazione, più sarà facile fare accettare queste esigenze...

Si parla spesso di medicina di genere quale studio delle differenze tra uomini e donne dei fattori determinanti la salute e il carico di malattia. Ma questa branca richiama pure l'attenzione sulle differenze di genere nel prestare le cure. Lei che ne pensa?

Per quanto riguarda la somministrazione delle cure sono stati condotti diversi studi che hanno evidenziato un significativo differenziale tra i due generi. Nelle malattie cardiovascolari si è riscontrato che l'uomo ha una frequenza di eventi cardiovascolari maggiori della donna, specialmente nelle fasce di età precedenti alla menopausa, ma le donne, una volta colpite dall’evento cardiovascolare, hanno una maggiore probabilità di morire. Ad oggi non si è ancora capito se questa discrepanza è dovuta a fenomeni sociali oppure biologici. Una prima ipotesi che era stata fatta indicava una diversa qualità di accesso ai servizi: sembrava che le donne arrivassero più tardi al Pronto soccorso rispetto agli uomini e di conseguenza gli interventi diretti sull'evento cardiocircolatorio avessero acquisito quel ritardo tale da renderli meno efficaci. Altri studi hanno messo in evidenza il peso che può avere il differente approccio tra i due sessi nella descrizione dei sintomi.

È interessante questa osservazione...

Si è visto che l'uomo infartuato indica precisamente il dolore al petto e subito vengono attuati i presidi utili alla diagnosi e, quindi, alla terapia d'urgenza. Nelle donne la descrizione è dedicata a fattori non direttamente coinvolti, dando una descrizione meno chiara e focalizzata: un modo di raccontare e di rappresentare tipicamente femminile! Di conseguenza, l'atteggiamento del clinico nei confronti della donna viene orientato verso l'infarto del miocardio, ma anche verso altre possibili diagnosi che nell'insieme generano ritardo nella diagnosi correlabile alla maggiore mortalità, alla quale contribuiscono sicuramente anche altri fattori biologici e fisiologici. È interessante osservare un diverso modo di fare la diagnosi e una diversa attitudine nei confronti della donna che non è imputabile a una discriminazione a priori, ma al diverso modo di porsi davanti ai sintomi.

La medicina di genere estesa alla dimensione del counselling potrebbe servire per superare parte delle discriminazioni di genere?

Certamente. Studi sulla salute di genere prodotti recentemente in Spagna suggeriscono la possibilità di superare queste differenze una volta riconosciute.

Ma questi studi stanno per essere trasferiti nella pratica medica?

Siamo nella fase di impostazione del lavoro. Ad esempio, al Regina Elena stiamo lavorando a un progetto sulla donna come partecipante di screening e sulla donna come persona al centro della osservazione, sia diagnostica che clinica. Il progetto è ancora in fase di stesura e installazione; permetterà alle donne di afferire al nostro Istituto per svolgere una serie di test preventivi in un solo giorno (pap test, mammografia, densità ossea). La nostra intenzione è quella di ascoltare le partecipanti e di cercare di valutare, con il supporto di strumenti disponibili nell'ambito clinico, la possibilità di includere valori e preferenze delle partecipanti riguardo a potenziali programmi e terapie che riguardano la loro vita futura.

Questo progetto sembra in linea con le politiche per le pari opportunità che rappresentano una priorità per l'attuale Ministro della salute Livia Turco. Si può parlare di pari opportunità nell'accesso ai servizi sanitari e alle cure appropriate nel nostro Paese?

Non abbiamo dati che dimostrino una marcata disuguaglianza di genere nell'accesso alle cure in tutto il nostro Paese, ma sicuramente esiste un significativo differenziale Nord/Sud. In tutti i programmi, il Ministro Livia Turco ha portato in primo piano problemi che riguardano il differenziale femminile, ma sopratutto il differenziale Nord/Sud, che ai nostri giorni è inaccettabile. Se solo riuscissimo a garantire un uguale accesso diagnostico e terapeutico alle donne del Sud e del Nord, supereremmo una grave ed ingiusta disuguaglianza...

Paola Muti ha guadagnato a pieni voti il posto di direttore dell'Istituto Nazionale Tumori Regina Elena IRCCS, dopo venticinque anni di un'intensa attività di ricerca epidemiologica in ambito oncologico e sullo sviluppo di banche biologiche per la raccolta e la conservazione di campioni biologici. Ha condotto una brillante carriera accademica negli Stati Uniti – insegna Advanced Cancer Epidemiology alla Harvard University - senza rinunciare alla sfera femminile della maternità. Paola Muti è madre di Greta e Giovanna. Ama leggere e andare per mare.

Per gentile concessione Il Pensiero Scientifico Editore

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